A parlare di suicidio, il solito suicidio del Brasile, si rischia di sabotare i meriti del Belgio, che Martinez ha rimpinzato di muscoli e disposto all’italiana. Stava giocando benino, la squadra di Tite – palo di Thiago Silva in mischia e un po’ di polvere di stelle – ma al primo chiodo si è sgonfiata. L’autogol di Fernandinho ci porta all’assenza di Casemiro, lucchetto prezioso. Dettaglio che farà sorridere, dal momento che, di solito, si misura il Brasile con il metro di Neymar (così così), Coutinho (un disastro, tranne l’assist per Renato Gustavo), Gabriel Jesus (fumo), Firmino (da impiegare subito), Willian (in ribasso) e Douglas Costa (da impiegare prima).
Mica fesso, Martinez. Fuori Mertens e Carrasco, già sostituiti contro il Giappone, dentro Fellaini e Chabli. Non sono un patito di Fellaini, ma che partita: anche su Neymar, se era il caso.
Hazard è stato la bussola, sempre e comunque. Lukaku, largo, serviva per aprire varchi, stanare Miranda, allargare Fernandinho. Il raddoppio è venuto sul più contropiede dei contropiede, suggellato dalla pallottola fischiante di un De Bruyne non più gregario, non ancora mattatore. Faine contro polli.
Alla ripresa, Tite ha aggiustato l’assetto, inserito forze fresche e ordinato l’arrivano i nostri che nei film western spesso movimentano la trama ma non sempre, nel calcio, aggiustano il risultato. La sfida mi ha appassionato perché si è risolta nel confronto tra due scuole: lo stile brasiliano e lo stile italianista, illuminato, proprio agli sgoccioli, dalla paratona di Courtois su un destro pettinato di Neymar. A proposito del quale va ribadito che le nuotate con richiesta d’aiuto hanno sortito l’effetto di trasformare gli arbitri in bagnini molto (e giustamente) sospettosi.
Dimenticavo: la mia finale virtuale era Brasile-Argentina.